Societa’ di comodo, il punto della giurisprudenza. Interpello non obbligatorio per la Cassazione.

L’art. 30 della legge n. 724/1994 – più volte modificato nel corso degli anni – con l’obiettivo di contrastare maggiormente i fenomeni elusivi, detta la disciplina delle società non operative, intendendosi per tali quei soggetti, aventi la forma societaria di capitali e/o di persone, che – salvo prova contraria – conseguono un ammontare di ricavi inferiore alla somma degli importi risultanti dall’applicazione dei coefficienti stabiliti dalla medesima disposizione. In pratica, il legislatore ha previsto una disciplina antielusiva basata sul presupposto che alcuni beni patrimoniali, appositamente individuati, siano in grado, in modo oggettivo, di generare un livello minimo di reddito.
La normativa in esame ha lo scopo evidente di penalizzare quelle società che al di là dell’oggetto sociale dichiarato, sono state costituite per gestire il patrimonio nell’interesse dei soci, anziché per esercitare un’effettiva attività commerciale.

Di norma l‘Ufficio ridetermina il reddito d’impresa e il valore della produzione netta della società ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724/1994 che non ha presentato istanza di disapplicazione della disciplina sulle società di comodo e non supera il test di operatività
Il contribuente interessato, a questo punto, impugna l’atto impositivo eccependo in genere che la disciplina sulle società di comodo non sia applicabile nei suoi riguardi, per le più svariate ragioni.
La giurisprudenza di merito non sempre condivide la tesi dei contribuenti anche a fronte delle controdeduzioni degli Uffici che in genere eccepiscono la mancata proposizione dell’interpello disapplicativo ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8 del D.P.R. n. 600/1973, da considerarsi un adempimento ineludibile e non facoltativo oltre che l’unica modalità per affrancarsi dall’applicazione delle norme sul reddito presunto, nonché dalle penalizzazioni in materia di Iva.
In genere questi contenziosi finiscono al vaglio della Corte di Cassazione.
Salvi casi particolari, in queste ipotesi le società anche davanti ai giudici di legittimità deducono principalmente che:
a) il contribuente possa sempre impugnare l’avviso di accertamento al fine di far accertare l’insussistenza delle condizioni per l’applicazione della disciplina antielusiva sulle società di comodo, anche senza aver previamente presentato istanza di interpello disapplicativo,
b) l’interpello non rappresenta una condizione indefettibile per accedere alla tutela giurisdizionale, ma soltanto un presupposto per l’avvio del procedimento di verifica, nell’ambito del quale l’interessato è ammesso a dimostrare in via preventiva l’inesistenza di una finalità elusiva, pur ricorrendo gli indici indicati nell’art. 30 comma 1, legge n. 724/1994;
c) l’eventuale decisione intermedia della commissione di merito di non consentire la possibilità di dimostrare in giudizio le situazioni oggettive di carattere straordinario idonee a vincere la presunzione legale di non operatività, si pone in contrasto con il diritto di difesa.

L’interpretazione di legittimità
La presunzione legale di inoperatività che ne deriva, che ha carattere relativo, si fonda sostanzialmente sulla massima d’esperienza per la quale non vi può essere di norma, effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi (Cass. n. 6195/2017)
In particolare, secondo il comma 1 dell’art. 30 una società si considera non operativa se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico, è inferiore a un ricavo presunto, calcolato attraverso il c.d. test di operatività.
Lo status di società non operativa – risultante dall’applicazione dei parametri, – non è però permanente, ma va accertato anno per anno, ben potendo una società essere non operativa in un determinato esercizio sociale, ed operativa in quello successivo (cfr. Cass. n. 4850/2020, Cass. n. 12829/2017)
Questi soggetti, quindi, al ricorrere dei presupposti previsti dalla norma, sono considerati “di comodo” e, di conseguenza, sono assoggettati alla disciplina delle società non operative ed ai relativi adempimenti, compresi la liquidazione e, qualora siano soggetti IRES, al versamento dell’imposta con aliquota maggiorata.

Secondo la Cassazione la determinazione dell’imponibile deve essere effettuata sulla base di precisi criteri di legge, che escludono qualsiasi discrezionalità deduttiva, fatta salva la prova contraria da parte del contribuente che deve dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, specifiche ed indipendenti dalla sua volontà, che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto (Cass. n. 24738 e n. 10157 del 2020, n. 13699/2016).
Sul punto è stato chiarito che le oggettive situazioni di carattere straordinario non devono essere considerate in termini assoluti ma più elastici, avendo riguardo alle effettive condizioni del mercato (Cass. n. 24738 e n. 10158 del 2020, n. 4019/2019).
Tali situazioni, infatti, non devono essere individuate alla stregua di un criterio rigido e stringente, dovendo, piuttosto, ritenersi idoneo a vincere la presunzione legale di non operatività, ogni specifico fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che abbia impedito di conseguire ricavi nella misura minima legale. Ad esempio, il ritardo nell’avvio della produzione provocato dal protrarsi della fase preparatoria – nella quale si inserisce anche la realizzazione dell’impianto industriale strumentale allo svolgimento dell’attività di impresa – può assumere rilevanza quale causa di esclusione purché risulti quanto meno la programmazione di un’attività commerciale e il contribuente non si limiti a dedurre il ritardo nell’avvio dell’attività produttiva, ma dimostri che lo stesso non sia dipeso da un proprio comportamento, ma da ragioni estranee alla propria volontà (Cass. n. 24314/2020)

Dunque, oggi, in presenza di oggettive situazioni la società interessata può interpellare l’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera b), della legge n. 212/2000 tramite il c.d. interpello probatorio facoltativo e non obbligatorio, in luogo del precedente interpello disapplicativo, previsto dall’art. 37-bis, comma 8 del D.P.R. n. 600/1973, ormai abrogato.
Da ultimo, la Suprema Corte (ordinanza n. 4946/2021) ha rammentato che la disposizione sulle società non operative, prevede due presunzioni legali: di non operatività e di reddito minimo. Nel momento in cui, effettuato il test di operatività, il contribuente non fornisce la prova contraria, può trovare applicazione la seconda presunzione.
I giudici di legittimità escludono, poi, che l’eliminazione dell’espressa previsione della facoltà di prova contraria, nell’ambito del test di operatività, abbia mutato la natura della presunzione legale. In buona sostanza, le modifiche apportate dalla legge n. 296/2006 non hanno eliminato la possibilità per il contribuente, di vincere la presunzione legale della finalità elusiva delle società non operative della ricorrenza di una situazione oggettiva a sé non imputabile, cha abbia reso impossibile il conseguimento di ricavi e la produzione di reddito entro la soglia minima stabilita ex lege.
La Suprema Corte, infine, ha chiarito che non possa riconoscersi validità neppure all’assunto per cui il contribuente sarebbe ammesso alla prova contraria, solo a condizione del preventivo esperimento del rimedio precontenzioso dell’interpello disapplicativo.
L’interpello disapplicativo, infatti, non è una condizione di procedibilità e di limitazione della tutela giurisdizionale del contribuente, né la modifica normativa ha comportato la soppressione della facoltà per il contribuente di superare la presunzione legale di non operatività