Verifiche fiscali, per la Cassazione la acquisizione irrituale di documenti non inficia il controllo.

L’eventuale irrituale acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta la loro inutilizzabilità.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20385, depositata il 28 settembre 2020.
Secondo i giudici di legittimità,nell’ordinamento tributario non vi è alcuna norma che preveda tale conseguenza, a differenza di quanto avviene nel procedimento penale, il quale però resta distinto e separato da quello tributario.
Il fatto. Ad una società veniva notificato un avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell’IVA contenente contestazione di fatture inesistenti. L’atto impositivo derivava da una verifica eseguita dalla Guardia di Finanza, nel corso della quale emergevano anche elementi di rilevanza penale, che portavano quindi alla contestazione della violazione degli articoli 2 e 8, D.Lgs. n. 74/2000.
La contribuente, si deduce dalla Sentenza, ricorreva eccependo la violazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p., ritenendo in sostanza che l’indagine eseguita dalla Guardia di Finanza aveva di fatto avuto natura penale, con la conseguenza che dovevano essere rispettate le garanzie della norma suindicata: in difetto non potevano considerarsi ammissibili gli elementi raccolti dai militari, con efficacia anche da un punto di vista tributario, con conseguente assenza di prova della pretesa erariale.
La tesi era ritenuta infondata sia in primo che in secondo grado. La CTR, in particolare, evidenziava l’autonomia tra il processo penale e quello tributario, con impossibilità di far derivare l’inutilizzabilità delle prove anche in assenza del rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il giudizio penale.

Con l’ordinanza n. 20358, depositata il 28 settembre 2020, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della contribuente.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, i processi penale e tributario sono tra loro distinti (cd principio del doppio binario) e l’obbligo del rispetto delle disposizioni del c.p.p. sorge si quando nel corso delle attività ispettive emergano indizi di reato, ma solamente ai fini dell’applicazione della legge penale. Tanto più che nell’ordinamento tributario non si rinviene alcuna norma corrispondente a quella prevista dal c.p.c. (art. 191) per la quale le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate.
Le indagini della Guardia di Finanza espletate ai fini tributari, in sintesi, hanno natura amministrativa e vanno considerate distintamente da quelle in cui i militari operano in veste di polizia giudiziaria e dirette all’accertamento di reati, per le quali vanno rispettate le prescrizioni del c.p.p..
Solo in sede penale, dunque, può rilevare la possibile inosservanza di dette prescrizioni, mentre l’Agenzia delle Entrate e il giudice tributario ben possono avvalersene ai fini fiscali, senza che ciò costituisca violazione del diritto di difesa.
Da ultimo la Suprema Corte ha precisato come in casi come quello di specie non risulti violato nemmeno il principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, citato dalla contribuente nel proprio ricorso ma in maniera del tutto inconferente.